mercoledì 11 agosto 2010

Jean-Charles Vegliante: Nature, texte

Nature, texte

Je lis dans le livre d’un ami qu’à travers ta respiration il devient mains, quelqu’un, qui se glissent devant toi, « frottent le tissu de ton pull large contre tes seins, sur la peau des hanches, ailleurs. Tu sens ses doigts, ses paumes, dans le tissu. Ton pantalon a une ceinture. Tes doigts s’enfilent, entre les siens. Tu les enlèves. Il dénoue ta ceinture. Fait descendre une main sous l’élastique. Ses doigts descendent à travers les poils dans l’humide. Quatre doigts, deux, comme sous un plus doux palais. Un, sur la cime du plaisir. »
La respiration de qui, si je sens ? Cela n’est à personne. Il n’y a pas de personne dans le secret humide. Longtemps j’ai cru que tu me donnais ta personne. On croit trop longtemps être de quelqu’un. Un beau jour c’est fini, lessivé. Je vois des femmes qui marchent, vers quelqu’un peut-être, jambes nues et toujours leurs seins, même de loin c’est la différence. Les fesses aussi, un peu quand on les suit, comment elles bougent, ça me frappe (leur indépendance), mais pas autant que les seins : mammifères. Définition de l’espèce, dont je fais partie. Tous autant que nous sommes, sous le signe des sources de lait. D’où l’humide. Et pourtant. Nos sentiments les plus exquis, portés par cette réalité de l’espèce, de sa survie. Nos idées, nos écrits, nos prières : instruments de cette force aveugle, dite ‘nature’. Entièrement traversés par la compulsion unique à se renouveler, à subsister par l’anonyme vie/mort de l’ensemble.
« Quelle parole est-ce, mienne ou de qui, alors ? » poursuivait l’ami, Mario Benedetti. Il citait Bataille, et Michelstaedter. Pour moi peut-être aussi Rimbaud, une fois de plus : « Dans quel sang marcher ? »… « Connais-je encore la nature ? me connais-je ? – Plus de mots. »
Quels mots pour une encore parole ? Qui n’appartiendrait à personne. Qui serait phrase de la survie. De la mort dont se perpétue l’espèce, pure jusqu’à l’os des verbes. Pure syntaxe. Vers qui affleurent d’une mémoire involontaire, de quelqu’un qui a eu accès au palimpseste perdu (par exemple, cette nuit du 21 mai 2008, alors que le livre n’a pas été encore édité : « Con lo sguardo amoroso a sé li tira »). Qui en attend la compensation de quels amours ratés ? Dans la grande illusion de la lignée, de sa propre aventure, de sa rencontre, de son désir, de sa personne : de son immortalité. La suprême farce, qu’il faille être deux. Dans l’aléa de la rencontre entre deux riens, pour assurer la vie/mort naturelle. Cette course à la perpétuation.
Quelqu’un rêve en moi que tu retiens ses doigts sur la marge entre dedans et néant, dans les lèvres de ta petite source, dans la bouche plus douce du lait, dans l’humide seuil qui nous rend frère et sœur, mammifères. Que tu parles du mince territoire du plaisir, cette membrane, peau, muqueuse, frontière. Que tu rejoues la même tromperie, l’imposture, que tu y crois ? Que le temps de ce texte, bref, nous pourrions, quelqu’un, vivre ? Une aube de lait nous désoriente parfois comme si nous étions ailleurs, dans les objets, les parfums, les gestes, les modalités même du rêve anonyme qui nous traversait (naguère), enfui, rassurant... ou sa


Jean-Charles Vegliante
(juillet 2010)

venerdì 16 luglio 2010

Milo De Angelis: Una poesia, dopo Il tema dell'addìo

E’ tardi. La memoria
di un uomo era solo questa
manciata di sillabe. Solo loro
ritornano dalle oscure cantine
abitate dal niente:
seno distrutto, annuncio deportato,
qualcosa che non rigenera morendo
ed entra muto nella sua fine.
Sono puntuali, sono
scagliate contro le rocce, non hanno odore
né suono, bisbigliano
parole esterrefatte, sono un battere
di ali protese, cieche, fedeli
a un ordine oscuro. Adesso tu
devi tradurre.

giovedì 10 giugno 2010

Franca Mancinelli: sulle Pitture nere su carta

Tramontato il paesaggio, nello spettro del luogo più caro


Le Pitture nere su carta di Mario Benedetti sono un addio, un lancinante grido di dolore, un incontro con le ombre dei morti. L’addio è prima di tutto ad un paesaggio che, in Umana gloria, custodiva la memoria e nello stesso tempo continuava ad essere reso fertile dai gesti della quotidianità, dalle parole delle persone amate, dalla loro semplice presenza che si depositava nel tempo, colmando i luoghi di vita, lasciandovi il calore e la densità del proprio fiato. Eppure, accanto ai moti di gioia, all’allargarsi del cuore che ritrova lo stupore intatto dell’infanzia, la luce in cui le cose appaiono per quello che sono, era già presente in Umana gloria (Mondadori, 2004) l’ombra della morte, quel graffio nero e immobile che, attraverso il ricordo del terribile terremoto del ’76, cresce fino alle ultime sezioni dove il paesaggio diviene un presepio, un luogo impraticabile, un “resto”. Con i due testi finali di questo suo primo libro mondadoriano siamo già dentro al clima che detta le Pitture nere: il movimento a ritroso della memoria non è più nella direzione della vita, della ricerca della propria identità. Un cortocircuito ha spento la luce originaria da cui attingeva la poesia; i luoghi dell’infanzia, dell’inizio, sono diventati quelli della morte: «Cerco una fine dove giocavo», dice il primo verso di Riesumazioni. Ai bagliori e alle slogature che il ricordo portava nella percezione del presente fino a confonderlo con il passato e con il sogno, subentra la fissità di un rituale funebre, il distacco del visitatore di un’Area museale. Ed ecco le Pitture nere su carta, come uno strappo dai luoghi su cui si reggeva un’intera esistenza, il referto di un trauma e insieme di un processo già innescato nelle cose. Come per un «disseccamento naturale» il paesaggio appare ora nel suo volto raggrinzito di mummia; la storia lo ha disabitato, l’ha svuotato, ha trasformato la sua vita in un reperto. Ma anche nello sguardo del poeta è avvenuto un radicale mutamento: un dolore fortissimo, «sfinente», lo ha condotto dentro la materia, nel richiamo del corpo e delle sue percezioni. È come se gli occhi fossero «indietreggiati» lasciandogli una visione interna, uno schermo dove le immagini della realtà passano attraverso le dissolvenze, i fasci di luce, le onde e gli spettri di «physical dimensions». L’arte che in Umana gloria era uno dei filtri attraverso cui il soggetto percepiva la realtà, resta ora l’unica forma d’esperienza. Il reale appare come una grande installazione permanente, un catalogo che potrebbe espandersi all’infinito, una guida turistica, una «fotografia scattata da satellite», una lastra opalescente in cui è rimasto impresso un corpo. La figura principale è ora quella dell’elenco, già presente in Umana gloria ma con un collante che teneva insieme le cose, gli elementi. «E tutto tenevi sul tuo maglione» scrive Benedetti alla fine di una delle sue Lacrime, consapevole che quel calore che dava un centro alla realtà e che scaturiva dalla forza assoluta e ideale del suo amore infantile, ora si è perso. Il reale ha così ampliato le sue fenditure e il nulla si espanso, in ogni direzione, a trecento sessanta gradi: «Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente».
Al paesaggio dell’infanzia, amato fino a rendergli sembianze umane, fino a confonderlo con il proprio corpo, è stato apposto un segno negativo, un non che azzera la vita e il moto emotivo del ricordo: «E gli anni // a capo, che seguitano, vedi, // posso andare, nel non volto, e non / piango per questo, oh per questo // non ci sono labbra da toccare». Così anche il chiarore, il bianco e la luce che appare più volte, sono disanimati, spettrali, provengono dal gelo oppure sono irradiati dall’universo, in una misteriosa e lontana tonalità opaca, spenta: «Nubi sottolucenti. Di madreperla. […] Aurore polari».
Ma più che di paesaggio bisognerebbe parlare ormai di «spettro di un luogo» (Giorgio Agamben), di uno spazio percorso a tastoni, come un sonnambulo, guidato dai sussurri e dagli scricchiolii dei morti. Quella ricerca dei dispersi, dei corpi assopiti nel profondo dei luoghi che apriva Umana gloria, ha condotto Benedetti fino a questo spazio dove, senza più cielo né terra, i morti possono quasi essere incontrati, toccati, possono “passarci la forza”. Pitture nere si conclude proprio con questa sorta di oltrepassamento della materia; un evento centrale, al quale tutto il libro sembra averci portato, sfiorando una soglia che richiama irresistibilmente tanto più quanto si fa insopportabile il dolore. È proprio questo passo compiuto oltre il limite, a dare la forza e la ragione di un libro nel quale si è rischiato tutto, fino a sfiorare l’afasia, la fine del linguaggio, l’indistinto che regna quando la fede nella parola si è consunta: «Dalla notte il mattino la notte, / pantaloni verdi, pantaloni blu, / il nero, l’azzurro, il ramato, tutto. // Perché non è più una parola. / Sono case i mari, le strade, / e strade e mari, le case». La realtà che in Umana gloria era presente nella sua densità, nel suo spessore fatto anche di sogno e di mancanze, lascia il posto ad un sentimento di irrealtà che è tanto più forte quanto la morte sembra risucchiarlo con il suo richiamo fermo. Da una parte le epifanie, i lampi di gioia, la festa per l’apparire delle cose, per la loro semplice presenza (la tautologia era forse la figura dominante del libro precedente), dall’altra l’accumulo di immagini, andando verso l’astratto, sfiorando il manierismo («Velame di posti. Viti, uova, radicchio, / […] Viti di viti, uova di uova…», oppure sconfinando nel barocco, con il suo funebre sfarzo, con i suoi ornamenti che diramano nel vuoto (vedi in particolare la sezione Reliquari). Non è un caso che molte poesie riportino in epigrafe il luogo o la cosa a cui si riferiscono, come se brandelli e mozziconi di realtà fossero il punto di partenza di una «meditazione decorativa», di un variare di immagini «nel nulla, nelle sue possibilità».
Tutto il libro è un continuo oscillare e tendere tra due poli, «tra irrealtà e lacrime»: da una parte la distanza anestetizzata, offuscata da sagome e barbagli di immagini, di chi sente venuto il momento dell’addio e si volta ancora indietro, verso la vita, dall’altra gli spasmi di un dolore lancinante, annidato «alla radice dei nervi». Un grido animale stride altissimo squarciando ogni ornamento retorico, ogni tentazione di manierismo che poteva annidarsi dove la realtà sfuma o, meglio, entra in «stati che non si possono», in territori in cui la lingua non arriva, se non «a stento», come «senza pensiero», anestetizzata, oppure in mozziconi, in notazioni secche e frammentarie, come in uno zibaldone. «Luna caduta secondo il mio sogno. / Idilli, o pensiero troppo ragionato ec.» scrive Benedetti in una sequenza che richiama da vicino lo Zibaldone leopardiano; ma sono diversi i punti in cui torna il poeta recanatese, nel materialismo del quale Benedetti si è certo nutrito (si vedano versi come: «Infinite mattine, infinite notti. / Va dolce il nulla, // il dolcissimo nulla»). Come nel Leopardi di A se stesso, la formidabile forza delle Pitture nere di Benedetti sta nel loro essere nate di fronte ad un abisso: un ultimo passo del linguaggio, della poesia, di ogni forma di umano sentire.

Franca Mancinelli

venerdì 12 marzo 2010

Enrico Testa

"[La poesia] è fedele alla sua radice terrena senza però tramutare il paesaggio umano in grigia insensatezza o il quotidiano in catalogo minimalista di piccoli fatti, ed è sensibile ai richiami del «trascendente» che scorrono nelle relazioni senza però edificare su di essi una mitografia della verità e dell'assoluto. Filo teso tra l'essere e il nulla, si sofferma sui molteplici luoghi dell'esistere con una disponibilità che, debitrice in più punti della lezione dei maestri più anziani, è direttamente proporzionale alla fine della credenza nella centralità dell'io, allo straniamento del suo punto di vista, ad un impianto compositivo che assume in sé narrazioni ellittiche, parole altrui, figure ben distinte, oggetti d'inquietante familiarità, elementi animali e naturali che guardano, insistono, interrogano."

giovedì 25 febbraio 2010

Nicola Ghezzani

"Il crollo dell'io, dei valori nei quali ho sempre creduto, porta con sé anche il crollo del mondo: la fine del senso della vita. Questa catastrofe del senso, questa catastrofe epistemica è il preludio a ogni trasformazione dell'io e del senso della vita. (...) colui che è in grado di immaginare la crisi permanente, ossia l'instabilità che è costitutiva di ogni sistema di valori, può riacquistare l'equilibrio solo fissando lo sfondo neutro su cui avvengono tutte le trasformazioni."

sabato 13 febbraio 2010

San Gerolamo

 
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IL FULMINE

Questa notte è piovuto.
Il sentiero ha odore di erba bagnata,
poi nuovamente la mano del calore
sulla nostra spalla, come
per dire che il tempo non ci porterà via niente.

Ma là
dove il campo inciampa nel mandorlo,
ecco, un animale è balzato
da ieri a oggi attraverso le foglie.

E noi ci fermiamo, al di fuori del mondo.

E io ti vengo vicino,
finisco di strapparti dal tronco annerito,
ramo, estate nel fulmine
da cui la linfa di ieri, divina ancora, scorre.

(YVES BONNEFOY, mb trad.)

domenica 31 gennaio 2010

Francesca Serragnoli

Da Il rubino del martedì, Raffaelli Editore, 2010


C’è gente che ha solo i fiori sul terrazzo
non ha amici, non ha cene, non ha pub
versano lì il loro amore
i fiori li guardano innamorati.
Me lo ha detto una signora
sola in un marzo freddo
guardando con timore il cielo plumbeo
“aspetto che viene bel tempo
perché io non ho più nessuno sa
ho solo i fiori”.


***

Ero entrata appena
nel tuo harem di rose pakistane
avevo creduto al tuo cuore di farina
alle uova avvolte
nella carta di un giornale.
Sbagliavo, stringevo
la tua rosa seccata fra i denti.

Di te sono rimasti
un piatto di pasta
riscaldato nel vino
i tetti di una Bologna svestita e un cognac
marca Lepanto.
E forse sono rimasta io
fra le rose.

(Francesca Serragnoli è nata a Bologna nel 1972)

venerdì 29 gennaio 2010

Yves Bonnefoy

Da Ce qui fut sans lumière, Mercure de France, Paris 1987


GLI ALBERI

Guardavamo i nostri alberi, era dall’alto
della terrazza che ci fu cara, il sole
si teneva vicino noi quella volta ancora
ma ritirandosi, ospite silenzioso
sulla soglia della casa in rovina,
che gli lasciavamo immensa, illuminata.

Vedi, ti dicevo, fa scivolare sulla pietra
disuguale, incomprensibile, dove siamo appoggiati,
l’ombra delle nostre spalle confuse,
quella dei mandorli vicini
e quella dell’alto dei muri che si unisce alle altre,
bucata, barca bruciata, prua che va alla deriva
come un sovrappiù di sogno o di fumo.

Ma laggiù le querce sono immobili,
neppure l’ombra si muove, nella luce,
sono le rive del tempo che scorre qui dove noi siamo
e il suolo è inavvicinabile tanto è rapida
la corrente gonfia di speranza della morte.

Abbiamo guardato gli alberi un’ora intera.
Il sole aspettava tra le pietre
poi distese pietosamente
verso gli alberi, più giù nel burrone,
le nostre ombre che sembravano raggiungerli
come allungando le braccia si può toccare,
a volte, nella distanza tra due persone
un istante del sogno dell’altra, che non ha fine.

(MB, trad. dal francese)