giovedì 10 giugno 2010

Franca Mancinelli: sulle Pitture nere su carta

Tramontato il paesaggio, nello spettro del luogo più caro


Le Pitture nere su carta di Mario Benedetti sono un addio, un lancinante grido di dolore, un incontro con le ombre dei morti. L’addio è prima di tutto ad un paesaggio che, in Umana gloria, custodiva la memoria e nello stesso tempo continuava ad essere reso fertile dai gesti della quotidianità, dalle parole delle persone amate, dalla loro semplice presenza che si depositava nel tempo, colmando i luoghi di vita, lasciandovi il calore e la densità del proprio fiato. Eppure, accanto ai moti di gioia, all’allargarsi del cuore che ritrova lo stupore intatto dell’infanzia, la luce in cui le cose appaiono per quello che sono, era già presente in Umana gloria (Mondadori, 2004) l’ombra della morte, quel graffio nero e immobile che, attraverso il ricordo del terribile terremoto del ’76, cresce fino alle ultime sezioni dove il paesaggio diviene un presepio, un luogo impraticabile, un “resto”. Con i due testi finali di questo suo primo libro mondadoriano siamo già dentro al clima che detta le Pitture nere: il movimento a ritroso della memoria non è più nella direzione della vita, della ricerca della propria identità. Un cortocircuito ha spento la luce originaria da cui attingeva la poesia; i luoghi dell’infanzia, dell’inizio, sono diventati quelli della morte: «Cerco una fine dove giocavo», dice il primo verso di Riesumazioni. Ai bagliori e alle slogature che il ricordo portava nella percezione del presente fino a confonderlo con il passato e con il sogno, subentra la fissità di un rituale funebre, il distacco del visitatore di un’Area museale. Ed ecco le Pitture nere su carta, come uno strappo dai luoghi su cui si reggeva un’intera esistenza, il referto di un trauma e insieme di un processo già innescato nelle cose. Come per un «disseccamento naturale» il paesaggio appare ora nel suo volto raggrinzito di mummia; la storia lo ha disabitato, l’ha svuotato, ha trasformato la sua vita in un reperto. Ma anche nello sguardo del poeta è avvenuto un radicale mutamento: un dolore fortissimo, «sfinente», lo ha condotto dentro la materia, nel richiamo del corpo e delle sue percezioni. È come se gli occhi fossero «indietreggiati» lasciandogli una visione interna, uno schermo dove le immagini della realtà passano attraverso le dissolvenze, i fasci di luce, le onde e gli spettri di «physical dimensions». L’arte che in Umana gloria era uno dei filtri attraverso cui il soggetto percepiva la realtà, resta ora l’unica forma d’esperienza. Il reale appare come una grande installazione permanente, un catalogo che potrebbe espandersi all’infinito, una guida turistica, una «fotografia scattata da satellite», una lastra opalescente in cui è rimasto impresso un corpo. La figura principale è ora quella dell’elenco, già presente in Umana gloria ma con un collante che teneva insieme le cose, gli elementi. «E tutto tenevi sul tuo maglione» scrive Benedetti alla fine di una delle sue Lacrime, consapevole che quel calore che dava un centro alla realtà e che scaturiva dalla forza assoluta e ideale del suo amore infantile, ora si è perso. Il reale ha così ampliato le sue fenditure e il nulla si espanso, in ogni direzione, a trecento sessanta gradi: «Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente».
Al paesaggio dell’infanzia, amato fino a rendergli sembianze umane, fino a confonderlo con il proprio corpo, è stato apposto un segno negativo, un non che azzera la vita e il moto emotivo del ricordo: «E gli anni // a capo, che seguitano, vedi, // posso andare, nel non volto, e non / piango per questo, oh per questo // non ci sono labbra da toccare». Così anche il chiarore, il bianco e la luce che appare più volte, sono disanimati, spettrali, provengono dal gelo oppure sono irradiati dall’universo, in una misteriosa e lontana tonalità opaca, spenta: «Nubi sottolucenti. Di madreperla. […] Aurore polari».
Ma più che di paesaggio bisognerebbe parlare ormai di «spettro di un luogo» (Giorgio Agamben), di uno spazio percorso a tastoni, come un sonnambulo, guidato dai sussurri e dagli scricchiolii dei morti. Quella ricerca dei dispersi, dei corpi assopiti nel profondo dei luoghi che apriva Umana gloria, ha condotto Benedetti fino a questo spazio dove, senza più cielo né terra, i morti possono quasi essere incontrati, toccati, possono “passarci la forza”. Pitture nere si conclude proprio con questa sorta di oltrepassamento della materia; un evento centrale, al quale tutto il libro sembra averci portato, sfiorando una soglia che richiama irresistibilmente tanto più quanto si fa insopportabile il dolore. È proprio questo passo compiuto oltre il limite, a dare la forza e la ragione di un libro nel quale si è rischiato tutto, fino a sfiorare l’afasia, la fine del linguaggio, l’indistinto che regna quando la fede nella parola si è consunta: «Dalla notte il mattino la notte, / pantaloni verdi, pantaloni blu, / il nero, l’azzurro, il ramato, tutto. // Perché non è più una parola. / Sono case i mari, le strade, / e strade e mari, le case». La realtà che in Umana gloria era presente nella sua densità, nel suo spessore fatto anche di sogno e di mancanze, lascia il posto ad un sentimento di irrealtà che è tanto più forte quanto la morte sembra risucchiarlo con il suo richiamo fermo. Da una parte le epifanie, i lampi di gioia, la festa per l’apparire delle cose, per la loro semplice presenza (la tautologia era forse la figura dominante del libro precedente), dall’altra l’accumulo di immagini, andando verso l’astratto, sfiorando il manierismo («Velame di posti. Viti, uova, radicchio, / […] Viti di viti, uova di uova…», oppure sconfinando nel barocco, con il suo funebre sfarzo, con i suoi ornamenti che diramano nel vuoto (vedi in particolare la sezione Reliquari). Non è un caso che molte poesie riportino in epigrafe il luogo o la cosa a cui si riferiscono, come se brandelli e mozziconi di realtà fossero il punto di partenza di una «meditazione decorativa», di un variare di immagini «nel nulla, nelle sue possibilità».
Tutto il libro è un continuo oscillare e tendere tra due poli, «tra irrealtà e lacrime»: da una parte la distanza anestetizzata, offuscata da sagome e barbagli di immagini, di chi sente venuto il momento dell’addio e si volta ancora indietro, verso la vita, dall’altra gli spasmi di un dolore lancinante, annidato «alla radice dei nervi». Un grido animale stride altissimo squarciando ogni ornamento retorico, ogni tentazione di manierismo che poteva annidarsi dove la realtà sfuma o, meglio, entra in «stati che non si possono», in territori in cui la lingua non arriva, se non «a stento», come «senza pensiero», anestetizzata, oppure in mozziconi, in notazioni secche e frammentarie, come in uno zibaldone. «Luna caduta secondo il mio sogno. / Idilli, o pensiero troppo ragionato ec.» scrive Benedetti in una sequenza che richiama da vicino lo Zibaldone leopardiano; ma sono diversi i punti in cui torna il poeta recanatese, nel materialismo del quale Benedetti si è certo nutrito (si vedano versi come: «Infinite mattine, infinite notti. / Va dolce il nulla, // il dolcissimo nulla»). Come nel Leopardi di A se stesso, la formidabile forza delle Pitture nere di Benedetti sta nel loro essere nate di fronte ad un abisso: un ultimo passo del linguaggio, della poesia, di ogni forma di umano sentire.

Franca Mancinelli