martedì 22 marzo 2011

Tommaso Di Dio, Inedito

Quel che ammonirono i libri santi.

Quel che scrissero i poeti. Le epigrafi.

I ruderi. Le pietre le caverne

scavate con le mani in gloria

del sangue di bufali, di elefanti. Tutto questo

essere stati non basta

solo l'essere è

bisogna ripetere tutto, capitolare.

Testa scura. Ventre scure del boia.

Bisogna pagare.

lunedì 21 febbraio 2011

Materiali... 2010

Gli ultimi tre libri di Mario Benedetti formano un sistema dialettico: leggerli in parallelo fa comprendere l’evoluzione di un percorso poetico che raggiunge la sintesi con Materiali di un’identità. La scrittura è composta da poesie, prose e da una «tipologia testuale saggistica» che non abbraccia i meccanismi logici e argomentativi caratteristici del genere: i nessi concettuali sono articolati da una capacità di osservazione interamente lirica. Il libro prosegue la ricerca esistenziale di Umana gloria (2004) e Pitture nere su carta (2008): chi scrive lo fa per trovare e riconoscere se stesso, le esperienze, le cose che gli sono appartenute o che gli appartengono.
Materiali di un’identità è un titolo chiave: il senso dell’identità è ciò che la poesia di Benedetti ha sempre scavato, e i materiali sono l’approdo di questa ricerca. L’identità non viene più riconosciuta o supposta per le essenze di cose e persone, ma è sbriciolata in entità, corpi, atomi che compongono il nostro mondo e sono il tutto, ma mai il particolare essenziale. Per questo il tutto arriva a coincidere con il nulla, con il vuoto («La sconfitta più grande è il non essere tutto»). Materiali parla di una tensione verso il vuoto, nello stesso modo in cui, nella Persuasione e la rettorica, l’immagine del peso che tende verso il basso è metafora dell’uomo che anela all’assoluto. L’opera di Michelstaedter è l’argomento su cui Benedetti si è laureato: unita alla lettura di Bataille, Rilke, Salvia, Celan, rappresenta il retroterra di questa scrittura. Come l’uomo di Michelstaedter, l’io dei Materiali non può più conoscere le cose in «modo diretto», ma in «modo congiunto»; non sa più comunicare, ma significare. I riferimenti a Michelstaedter trovano in Bataille un riepilogo speculativo: l’idea di una poesia «decaduta», «godimento di immagini sottratte», fatta di «rovine», di cui parla l’Esperienza interiore, è un comune denominatore tra il rapporto visibile/invisibile delle Elegie Duinesi, i collegamenti fra significanti slegati in Salvia, la poesia franta di Celan.

L’indagine esistenziale segue un processo di disumanizzazione. In Umana gloria le poesie hanno una trama, esiste un io che può ancora ricostruire l’esperienza vissuta: la testualità è spesso frammentata, ma la ricerca del soggetto è espressa con versi che la rendono esplicita al lettore. In Pitture nere la scrittura procede per automatismi: le esperienze non hanno più forme compiute e definite, la loro essenza si separa dalla loro materia, si disperde. La materia popola un universo nero in maniera disarticolata: colori, lacrime, reliquie, smalti, supernove sono punti di orientamento percettivi che restano sospesi. Nei Materiali, la «tipologia testuale saggistica» e la struttura del libro ricompongono a posteriori la dispersione. La prima parte, La lacerazione del vertice, parla di una poesia che ha perso il centro, l’integrità, come un corpo che non solo non riconosce più la distinzione tra fisicità e psiche, ma viene ridotto a «sangue» (p. 41), sua materia costitutiva. Se il corpo diventa il materiale di cui è composto, l’io e il tu non hanno più la capacità di esistere l’uno per l’altro: le loro esperienze sono atomi fra i tanti che compongono l’universo, sono a metà sulla terra, a metà nel cielo, senza possibilità di contatto autentico. Lo spazio popolato dai materiali disumanizzati è raccontato nella sezione di chiusura, Biosfere: nell’ultimo testo, L’azzurro, il tutto e il vuoto raggiungono una forma di equilibrio quasi estatico, come risolto, pacificato. Ma sono riproposti anche gli automatismi di Pitture nere, che danno l’immagine di una poesia aperta con un significato aperto. Materiali chiude a posteriori un percorso poetico, lasciando in fieri gli interrogativi esistenziali. La ricerca di Benedetti ha raggiunto la forma del saggio-lirico: ma resta nell’aria, in attesa.

Maria Borio

sabato 12 febbraio 2011

Il falso teorema del golpe morale

Il falso teorema del golpe morale
di GIUSEPPE D'AVANZO

Il presidente del Consiglio, settantacinque anni, si tiene accanto in villa - a pagamento - una prostituta minorenne per un paio di mesi, nel 2010. Questo è il fatto, assai ostinato nonostante la nebbia e le censure. Nasce una domanda processuale (Berlusconi ha commesso un reato?) e sortisce qualche effetto politico. Lasciamo in un canto la questione giudiziaria, per il momento.


Elenchiamo qualcuno degli esiti politici sotto forma di domanda.| Quell'uomo, già sorpreso in altri anni in compagnia di minorenni, ha il pieno controllo della sua vita?

Le sue condotte lo hanno reso vulnerabile ai ricatti o minacce della sua ospite, delle sue ospiti?

Quanto la vita caotica di quell'uomo danneggia il Paese che governa?

A quel discredito, domestico e internazionale, può egli stesso porre rimedio?
I suoi comportamenti possono essere, una buona volta, appropriati ai doveri pubblici che liberamente ha voluto assumere?

Come si vede, ognuno di questi interrogativi è concreto, factual perché rinvia all'interesse nazionale e al nostro destino collettivo. Per questa ragione pretende un'assunzione pubblica di responsabilità e reclama con urgenza un giudizio politico, prima che morale e giudiziario.

Se fossimo in un Paese dove il discorso pubblico si nutre di buonafede, disinteresse, civismo, si ritroverebbero (e si affronterebbero) nel perimetro di quelle domande le ragioni della crisi istituzionale che minaccia di precipitare il Paese in
una guerra civile o in un ineluttabile declino.

Purtroppo il discorso pubblico nazionale è alimentato soltanto dalla manipolazione, dal falso indiscutibile organizzato a tavolino, da uno spettacolo che conserva la comunità nell'incoscienza dissolvendone ogni senso critico. "Confondere e non convincere" è la regola. Non è altra l'intenzione della manovra chiamata "in mutande ma vivi" lanciata da Giuliano Ferrara, oggi unico canovaccio politico-informativo a disposizione del premier. È il tentativo manifesto di accantonare la questione politica per trasformarla in questione morale. Il trucco offre l'opportunità di mettere su un'artefatta baruffa contro l'"ipocrisia moralistica" che liquida ogni responsabilità e rifiuta ogni giudizio.

Lontano dalle sue responsabilità e protetto da ogni giudizio, il Re Nudo può salvarsi ancora una volta. E il Paese? Che si fotta, il Paese!

Viene in mente Molière, Tartuffe ou l'Imposteur. Il sermone di Giuliano Ferrara contro la "Repubblica delle virtù (il grand guignol va in scena oggi in un teatro di Milano) e dovrebbe, vuole essere - mutande a parte - terribilmente serio ma vi spira soltanto un'aria burlesca tanto lo spettacolo è un'impostura. Se si sfiora la questione da un'angolazione qualsiasi, o se ne vaglia un qualunque argomento o ragione, la ciarlataneria affiora ovunque, con qualche sprazzo comico. Induce al riso Berlusconi disegnato da Andrea Fortina con le fattezze di Giustiniano. È farsesco leggere, nell'intervista pubblicata dal "Foglio", Berlusconi che parla come Ferrara, che è Ferrara, pasticheur in pose da cardinal Mazarino, e mai Berlusconi, animale da preda con un Io ipertrofico. È buffonesca l'autorappresentazione di Berlusconi, degradato a ventriloquo di Ferrara (ma fino a quando?), come campione di "un sistema fondato sulla libertà, sulla tolleranza, su una vera coscienza morale pubblica e privata".

In Italia la memoria ha strepitose paralisi e tuttavia sentire quelle parole e formule - libertà, tolleranza, coscienza pubblica, coscienza privata - arrotarsi tra i denti da lupo del capo del governo fa venire il freddo alle ossa. Quale tolleranza, se ancora oggi ricordiamo gli ordini ai prefetti di prendere le impronte ai bambini nei campi Rom o di ricacciare in mare donne incinte, neonati e migranti in cerca di asilo politico. Quale libertà se nelle biblioteche del Nordest ha libero corso una lista di proscrizione dei libri non graditi e quindi vietati.

Dov'erano i liberali che oggi in pose servili difendono il diritto delle donne a prostituirsi quando il governo chiedeva per i clienti delle prostitute la galera. Dove s'erano appisolati questi quaresimalisti, quando ministri proponevano la tortura per scacciare il fantasma del terrorismo o uomini di governo sollecitavano l'omofobia o la discriminazione per una pelle diversa, una diversa fede, un altro luogo di nascita, fosse anche dentro i confini nazionali, ma troppo a sud. Come quelle bocche possano dire "libertà, tolleranza" quando hanno in animo di decidere per legge dello Stato delle nostra vita e della nostra morte, delle nostre cure mediche e di quanto dolore possiamo sopportare. E, a proposito di vita, di quale dionisiaca vita parlano gli "immutandati" - nicciani d'occasione - se ad ogni piè sospinto, ci ricordano che la vita non è il bene più alto per i mortali perché c'è sempre qualcosa di diverso in gioco nella vita, oltre la procreazione, oltre il sostentamento dell'organismo vivente, magari la salvezza dell'anima in questa vita o nell'aldilà.

Sotto l'aspetto sintattico, direbbe Franco Cordero, la prosa degli "immutandati" "è pastone o brodaglia". Nel lessico della Crusca, "pappolata"; in piemontese, "supa"". È una schifezza indigeribile che ha il solo pregio di mostrarci in trasparenza come il consenso che chiede Berlusconi sia soltanto obbedienza.

I bambini obbediscono, gli adulti acconsentono, ma a che cosa dovrebbero acconsentire gli adulti "in mutande ma vivi"? Berlusconi non propone loro un'idea, un programma, neppure un sogno.

Offre soltanto se stesso, la sua inadeguatezza, la propria sopravvivenza, la sua impunità. Ci si può sentire davvero "vivi" nell'obbedienza a un capo privo di un pensiero diverso dal suo personale tornaconto?

giovedì 27 gennaio 2011

Per Milo De Angelis

“e la vita regna, sola, certo, sola, ma non orfana” è un verso del 1978 di Milo De Angelis. La vita regna priva di origine e di fine ultimo, e la condizione dell’uomo è quella di una solitudine senza giustificazione e senza compensi. Ma così facendo questa poesia allontana da sé un grande tema come quello dell’Assenza e sentimenti ad esso legati come la nostalgia o il rimpianto. Ma anche non permette che la vita si offra in quella catena incantevole delle rappresentazioni, di holderliniana memoria, che è la catena sintattica: l’esaltante continuità di affermazione del mondo, di noi stessi nel mondo.
Nei testi di De Angelis, le infrazioni avvengono nel rispetto della parola, unità di significazione come elemento irrinunciabile di una Norma linguistica entro cui l’uomo comunica, anche all’altezza della dimensione estetica, e vive, ed inoltre di una relazione congrua all’interno del sintagma e della frase. Ad esempio, la non concordanza della persona (la sequenza non finalizzata delle frasi poiché esse hanno soggetti diversi per cui il compiersi dell’azione sembra differito e spostato) o la non concordanza di tempo (l’uso si potrebbe dire arbitrario dei tempi in una stessa frase complessa) sono figure che creano perplessità circa una presunta oggettività del referente senza però accanirsi a negarlo (eventualmente con un’alterazione della continuità fonica e grafica o con un’eccessiva sconnessione sintattica). Esse provocano, nel momento in cui impediscono all’atto linguistico di compiersi con interezza ed univocità, una instabilità del piano della significazione. Ed arrivando al dunque, lì trova espressione il tema della solitudine non orfana.
Anche il procedimento paratattico serve poi a precisare questa condizione. Nella giustapposizione emerge infatti la caratteristica di necessità ed insieme di superfluità del nostro stare al mondo, ha luogo l’ “esatto sentire di un cervello / senza più terra”.
“ Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi.” è scritto in Terra del viso (1985).

Dalla rivista “Scarto minimo”, novembre 1986

mercoledì 11 agosto 2010

Jean-Charles Vegliante: Nature, texte

Nature, texte

Je lis dans le livre d’un ami qu’à travers ta respiration il devient mains, quelqu’un, qui se glissent devant toi, « frottent le tissu de ton pull large contre tes seins, sur la peau des hanches, ailleurs. Tu sens ses doigts, ses paumes, dans le tissu. Ton pantalon a une ceinture. Tes doigts s’enfilent, entre les siens. Tu les enlèves. Il dénoue ta ceinture. Fait descendre une main sous l’élastique. Ses doigts descendent à travers les poils dans l’humide. Quatre doigts, deux, comme sous un plus doux palais. Un, sur la cime du plaisir. »
La respiration de qui, si je sens ? Cela n’est à personne. Il n’y a pas de personne dans le secret humide. Longtemps j’ai cru que tu me donnais ta personne. On croit trop longtemps être de quelqu’un. Un beau jour c’est fini, lessivé. Je vois des femmes qui marchent, vers quelqu’un peut-être, jambes nues et toujours leurs seins, même de loin c’est la différence. Les fesses aussi, un peu quand on les suit, comment elles bougent, ça me frappe (leur indépendance), mais pas autant que les seins : mammifères. Définition de l’espèce, dont je fais partie. Tous autant que nous sommes, sous le signe des sources de lait. D’où l’humide. Et pourtant. Nos sentiments les plus exquis, portés par cette réalité de l’espèce, de sa survie. Nos idées, nos écrits, nos prières : instruments de cette force aveugle, dite ‘nature’. Entièrement traversés par la compulsion unique à se renouveler, à subsister par l’anonyme vie/mort de l’ensemble.
« Quelle parole est-ce, mienne ou de qui, alors ? » poursuivait l’ami, Mario Benedetti. Il citait Bataille, et Michelstaedter. Pour moi peut-être aussi Rimbaud, une fois de plus : « Dans quel sang marcher ? »… « Connais-je encore la nature ? me connais-je ? – Plus de mots. »
Quels mots pour une encore parole ? Qui n’appartiendrait à personne. Qui serait phrase de la survie. De la mort dont se perpétue l’espèce, pure jusqu’à l’os des verbes. Pure syntaxe. Vers qui affleurent d’une mémoire involontaire, de quelqu’un qui a eu accès au palimpseste perdu (par exemple, cette nuit du 21 mai 2008, alors que le livre n’a pas été encore édité : « Con lo sguardo amoroso a sé li tira »). Qui en attend la compensation de quels amours ratés ? Dans la grande illusion de la lignée, de sa propre aventure, de sa rencontre, de son désir, de sa personne : de son immortalité. La suprême farce, qu’il faille être deux. Dans l’aléa de la rencontre entre deux riens, pour assurer la vie/mort naturelle. Cette course à la perpétuation.
Quelqu’un rêve en moi que tu retiens ses doigts sur la marge entre dedans et néant, dans les lèvres de ta petite source, dans la bouche plus douce du lait, dans l’humide seuil qui nous rend frère et sœur, mammifères. Que tu parles du mince territoire du plaisir, cette membrane, peau, muqueuse, frontière. Que tu rejoues la même tromperie, l’imposture, que tu y crois ? Que le temps de ce texte, bref, nous pourrions, quelqu’un, vivre ? Une aube de lait nous désoriente parfois comme si nous étions ailleurs, dans les objets, les parfums, les gestes, les modalités même du rêve anonyme qui nous traversait (naguère), enfui, rassurant... ou sa


Jean-Charles Vegliante
(juillet 2010)