giovedì 27 gennaio 2011

Per Milo De Angelis

“e la vita regna, sola, certo, sola, ma non orfana” è un verso del 1978 di Milo De Angelis. La vita regna priva di origine e di fine ultimo, e la condizione dell’uomo è quella di una solitudine senza giustificazione e senza compensi. Ma così facendo questa poesia allontana da sé un grande tema come quello dell’Assenza e sentimenti ad esso legati come la nostalgia o il rimpianto. Ma anche non permette che la vita si offra in quella catena incantevole delle rappresentazioni, di holderliniana memoria, che è la catena sintattica: l’esaltante continuità di affermazione del mondo, di noi stessi nel mondo.
Nei testi di De Angelis, le infrazioni avvengono nel rispetto della parola, unità di significazione come elemento irrinunciabile di una Norma linguistica entro cui l’uomo comunica, anche all’altezza della dimensione estetica, e vive, ed inoltre di una relazione congrua all’interno del sintagma e della frase. Ad esempio, la non concordanza della persona (la sequenza non finalizzata delle frasi poiché esse hanno soggetti diversi per cui il compiersi dell’azione sembra differito e spostato) o la non concordanza di tempo (l’uso si potrebbe dire arbitrario dei tempi in una stessa frase complessa) sono figure che creano perplessità circa una presunta oggettività del referente senza però accanirsi a negarlo (eventualmente con un’alterazione della continuità fonica e grafica o con un’eccessiva sconnessione sintattica). Esse provocano, nel momento in cui impediscono all’atto linguistico di compiersi con interezza ed univocità, una instabilità del piano della significazione. Ed arrivando al dunque, lì trova espressione il tema della solitudine non orfana.
Anche il procedimento paratattico serve poi a precisare questa condizione. Nella giustapposizione emerge infatti la caratteristica di necessità ed insieme di superfluità del nostro stare al mondo, ha luogo l’ “esatto sentire di un cervello / senza più terra”.
“ Materia che / fu soltanto materia, nulla che / fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi.” è scritto in Terra del viso (1985).

Dalla rivista “Scarto minimo”, novembre 1986

1 commento:

  1. Analisi acutissima della poesia di De Angelis. Acutissima perché compiutamente enuclea i princìpi alla base della correlazione tra la Weltanschauung deangelisiana e le ferree leggi compositive che governano la scrittura del poeta. Quella vita «sola, ma non orfana», una vita che non si svolge giacché passato e presente si fondono e che tuttavia è così ricca di momenti (di gesti) decisivi – è quella vita l’assioma della poesia di Milo De Angelis. Un assioma che porta con sé, come corollario, fatti tematici e fatti stilistici. Così, da un lato abbiamo la solitudine del camminatore che guarda il mondo esterno, il volto emblematicamente allucinato del reale, il silenzio come metodo per affrontare il quotidiano; dall’altro abbiamo la sparizione dell’io lirico, l’esplosione semantica dentro le strutture logico-sintattiche, l’esitazione linguistica dei lunghi giri di frase.
    La conseguenza di queste precise relazioni tra forme e concetti consiste nella coerenza della parabola che la poesia di Milo De Angelis, pur considerando le sue evoluzioni, disegna. Infatti tra ‘Somiglianze’ (1976) e ‘Quell’andarsene nel buio dei cortili’ (2010) passano trentaquattro anni e, nonostante lo sviluppo o la soppressione di alcuni temi e stilemi, il perno della poesia deangelisiana è ancora lo stesso: è la vita «priva di origine e fine ultimo» che Mario Benedetti aveva già individuato nel 1986. La «solitudine senza giustificazione e senza compensi» che in ‘Terra del viso’ era «Materia che/ fu soltanto materia, nulla che/ fu soltanto materia» (‘Nei polmoni’) è oggi descritta così: «Solitudine saliente./ Solitudine innata. Congiungersi/ dei petti nel nulla» (p. 55). E il principio «di necessità ed insieme di superfluità del nostro stare al mondo» – principio per cui in ‘Biografia sommaria’ (1998) la «Vita che è solo vita/ e non ci lascia prima di comprendere/ e batte sui segnatempo» (‘L’oceano intorno a Milano’, IV) diventa poi, di fronte allo spettro della morte, qualcosa di più complesso: «Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli/ a molti esseri prima di diventare nostra…/ …vita, proprio tu vuoi darle/ un finale assiderato, proprio qui» (‘Cartina muta’) – viene eternato nell’ultimo libro con questi versi: «nessuno sapeva se la vita era immensa/ oppure niente, se il tempo dilagava/ oltre le colline oppure un dio venerando/ impediva al gesto la sua crescita o impediva/ alle more di restare sulle labbra» (p. 26).

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