martedì 22 marzo 2011

Tommaso Di Dio, Inedito

Quel che ammonirono i libri santi.

Quel che scrissero i poeti. Le epigrafi.

I ruderi. Le pietre le caverne

scavate con le mani in gloria

del sangue di bufali, di elefanti. Tutto questo

essere stati non basta

solo l'essere è

bisogna ripetere tutto, capitolare.

Testa scura. Ventre scure del boia.

Bisogna pagare.

3 commenti:

  1. [1] È sempre un grande piacere leggere versi di Tommaso Di Dio, uno dei giovani più promettenti nel panorama della poesia italiana contemporanea. Questo inedito, poi, mi sembra estremamente rilevante perché costituirebbe il punto di partenza ideale per riprendere il cammino poetico cominciato con ‘Favole’ (2009), un esordio di cui andare fieri. Per individuare il ruolo di cerniera che il nuovo testo potrebbe assumere, dobbiamo partire dalla conclusione della prima raccolta. Nell’ultimo componimento del libro, prendendo le mosse da ‘Es war Erde in ihnen’ («C’era terra in loro»), una poesia di Paul Celan contenuta in ‘Die Niemandsrose’, Di Dio ci presenta un quadro in cui l’ambiente esterno, fatto di operai che scavano una buca, diventa il perfetto «correlativo oggettivo», il segno preciso della relazione intima e privata che ha unito l’io e il tu: scomparse tutte le parole, che vengono cancellate, soppresse, l’amore resta sotto forma di reliquia, di reperto. La vita degli uomini come scienza archeologica vuol dire cercare nei gesti e sui corpi quelle tracce che -- come osserva puntualmente Mario Benedetti -- «“marchino”, segnino davvero l’esperienza, riescano a situarla, ad inverarla». Ne consegue che il corpo è un paesaggio da perlustrare, rivoltare, mettere continuamente a soqquadro pur di trovare un brandello semanticamente pregno che parli da sé (la «sagoma del sorriso», le «ultime labbra», le «trecce dorate» e la «bella pelle» dei morti, la «faccia vivente» che reca su di sé «i bastardi segni e l’audacia/ del piacere», i «maremoti delle braccia incredibili», il «segno di ferita» cercato invano sul corpo, quel qualcosa che vive «nella bocca della gola», le «labbra del viso», l’isola «nella pancia», le mani che acquistano senso dalla primavera, la «carne mossa al portento/ dei fiori», le «labbra mai viste prima»). Ed in effetti questo processo di ricerca trova compimento nell’ultima delle ‘Favole’, dove anche la sintassi si frammenta nello sforzo di far venire alla luce quel segno: «Prendi questa cosa/ dura che germina sulla mia bocca, prendila. Loro/ scavano. Apri la bocca tua e la lingua/ cancelli ogni nome. Rimanga questo di noi/ segno muto. Amore. Che scavano». Questi bei versi suggellano compiutamente la fine di un percorso: la fragilità della vita può essere riscattata dall’eterno significato che le esperienze -- registrate dai gesti e nei luoghi dei corpi -- assumono; per dirla con Carducci (‘Jaufré Rudel’, in ‘Rime e ritmi’, vv. 75-76): «La favola breve è finita,/ Il vero immortale è l’amor».

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  2. [2] La poesia inedita si innesta perfettamente in questo scenario di fine delle favole. Nei nuovi versi, infatti, siamo ancora di fronte a un’escavazione archeologica, ma stavolta lo sforzo si rivela inutile: quel processo che era stato sancito in chiusura di libro appare oggi impraticabile. Qui si scava attraverso i secoli, fino alla preistoria, per riportare alla luce i segni dell’opera dell’uomo, prima (vv. 1-2) nelle forme prodotte dall’intelletto, in particolare la scrittura (i testi sacri, le poesie, le epigrafi), poi (vv. 3-5) nelle sue forme concrete, specie architettoniche (le rovine, le caverne che i primitivi a loro volta scavavano nella roccia). Tuttavia l’operazione fallisce, perché le tracce inestinguibili delle vite passate non sono sufficienti a eliminare il senso di precarietà e di morte dalla vita presente: «essere stati non basta/ solo l’essere è». E dunque non resta che arrendersi («capitolare»), scontando la propria finitezza: «Bisogna pagare». Tommaso Di Dio, si sa, è poeta cólto; per questo è probabile che la sintassi franta, il dettato conciso, l’andamento enumerativo, la quasi totale riduzione della punteggiatura al punto fermo siano mediati da una lettura attenta e consapevole delle ‘Pitture nere su carta’ di Mario Benedetti; e l’affermazione centrale del testo («essere stati non basta/ solo l’essere è») nonché, più in generale, il sentimento di sconfitta in una dimensione presente che pure è indicata come basilare rimandano forse a ‘Il pianto della scavatrice’ di Pasolini (vv. 1-3: «Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato,/ non l’aver conosciuto»).
    Eppure, al di là dei pensabili rinvii letterari, ciò che rende eccellenti questi versi -- sicuramente all’altezza di quelli, straordinari, contenuti in ‘Favole’ -- è la cifra stilistica dell’autore ravvisabile in essi: con questo testo inedito, Tommaso Di Dio dà un nuovo avvio alle forme e ai temi che già avevamo apprezzato, e garantisce così l’organicità interna della propria opera poetica.
    Abbiamo visto come la riesumazione di nozioni e azioni umane abbia perso, per il poeta, la sua funzionalità. Si avverte, quindi, la necessità di riformulare un metodo: il che -- in termini compositivi -- equivale al bisogno di tornare a scrivere.

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  3. approfitto di questo spazio per una domanda/richiesta : ho cercato per tutto il web Umana gloria, che è esaurito presso qualunque casa editrice. vorrei avere assolutamente quel libro: c'è qualche libreria dove ancora si puo' trovarlo? grazie, Blumy

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